Recensione pietra miliare – My Bloody Valentine – Loveless – 1991

di Alex Armosino, pubblicato il 15 Febbraio 2014

My Bloody Valentine – Loveless – 1991

by Alex Armosino

E’ sempre difficile tornare a parlare di un’opera per la quale, dalla sua uscita ad oggi, è stato dato fondo, nel bene e nel male, a tutti gli aggettivi possibili (e anche ai più improbabili) del vocabolario.

Già, perchè questo “Loveless” del 1991, capolavoro assoluto ed irripetibile dei My Bloody Valentine e, soprattutto, dell’ispirato genio del loro leader Kevin Shields, è da sempre oggetto delle interpretazioni più controverse e della ricerca, probabilmente vana, delle parole più appropriate per descriverlo.

Il problema di fondo è che generalmente le parole, gli aggettivi, sono elementi linguistici atti a qualificare la realtà fisica che i nostri (limitati) sensi ci permettono di registrare ed elaborare, e allora come descrivere un qualcosa che, in partenza, è frutto del tentativo di evocare attraverso una esperienza sensoriale -in questo caso il suono- ciò che va oltre la realtà percepibile, ciò che va oltre le nostre esperienze, in una parola: il metafisico?

Un momento… stiamo forse definendo Shields come una sorta di De Chirico del rock???

Perchè no? Il paragone con il grande artista visionario del ‘900 non è assolutamente fuori luogo: in particolare uno dei canoni espressivi della pittura metafisica è la creazione di immagini caratterizzate da aloni di mistero, di sogno o di allucinazione, che in “Loveless” ritroviamo identicamente sotto forma di una track list di episodi onirici che conduce l’ascoltatore attraverso un viaggio malinconico tra entità sonore inafferrabili fatte di innumerevoli chitarre lisergicamente riverberate, distorte, tremolanti, in un crescendo emotivo stordente e imprevedibilmente fluttuante.

E questo languido brancolare del centro sonoro, questo sfuggire continuo e vertiginoso del contesto armonico che pervade tutto il disco, coincide proprio con un’altra peculiarità del genere pittorico di cui sopra, ovvero la costruzione di una prospettiva realizzata attraverso molteplici linee di fuga non congruenti, che constringono l’occhio a cercare faticosamente una coerenza nella disposizione di immagini per le quali, in definitiva, non è possibile stabilire alcuna collocazione causale o cronologica, essendo appunto l’insieme delle scene rappresentate un esperimento di astrazione dal tempo e dallo spazio conosciuti.

In questo, “Loveless” risulta un ammaliante tentativo di riproporre alcuni concetti di trascendenza tanto cari alle culture orientali, ribaltandoli in una chiave intimamente legata alla realtà tecnologica del nostro tempo: la stratificazione compulsiva e fittissima di chitarre-tastiere è in fondo la variante tutta occidentale e post-industriale di un “mantra” ossessivamente ipnotico e straniante. E la voce di Bilinda Butcher che aleggia qua e là in un etereo palpitare, ci appare come la proverbiale luce in fondo al tunnel, dentro un’atmosfera di una surrealità tanto splendida quanto impalpabile.

Approfittando dell’opportunità di riparlare di questo disco, vorrei però levarmi il classico sassolino dalla scarpa: in quasi tutte le recensioni di “Loveless” che mi è capitato di leggere nel tempo, si tira sempre in ballo una presunta influenza e/o discendenza da alcuni gruppi della metà degli anni ’80 e, segnatamente, da The Jesus & Mary Chain, in virtù della loro emblematicità quali creatori di un certo tipo di “wall of sound” chitarristico intriso di feedback ed effetti stordenti e inquietanti.

Ebbene, questa attribuzione mi ha sempre lasciato perplesso, per il semplice motivo che laddove The Jesus & M.C. cercano ed esprimono dichiaramente una rottura nei confronti di determinati canoni sonori, la parola d’ordine del lavoro di Shields e soci non è “rompere” bensì “ricomporre”.

Ricomporre, o meglio, ricongiungere estremi talmente opposti e distanti che neanche la più ardita delle geometrie non-euclidee oserebbe ipotizzare: il marasma acustico più caotico ed inestricabile che assume paradossalmente la medesima valenza mistica del silenzio più profondo ed assoluto; il mischiarsi e sovrapporsi di sonorità chitarristiche e synthetiche di ogni genere e specie, ulteriormente straziate dalla copiosa effettistica, che raggiungono invece la stessa intensità emotiva ed incantatoria delle singole frequenze più pure e perfette che la mente possa immaginare: la voce della Callas, il flauto di Gazzelloni o magari il canto di un usignolo.

Questo è “Loveless”: un lavoro difficile da cogliere e da seguire, spesso ostico al primo ascolto, ma che, una volta assorbito e  metabolizzato, cambia per sempre il modo di percepire la musica, spostando ed estendendo su nuovi livelli di coscienza il concetto stesso di rock come forse nessun’altro album degli anni ’90 è riuscito a fare.

Tracklist:

  1. Only Shallow – 4:17 (Shields/Bilinda Butcher)
  2. Loomer – 2:38 (Shields/Butcher)
  3. Touched – 0:56 (Colm Ó Cíosóig)
  4. To Here Knows When – 5:31 (Shields/Butcher)
  5. When You Sleep – 4:11 (Shields)
  6. I Only Said – 5:34 (Shields)
  7. Come in Alone – 3:58 (Shields)
  8. Sometimes – 5:19 (Shields)
  9. Blown a Wish – 3:36 (Shields/Butcher)
  10. What You Want – 5:33  (Shields)
  11. Soon – 6:58(Shields)

Formazione:

  • Kevin Shields: voce e chitarra
  • Bilinda Butcher: voce e chitarra
  • Debbie Googe: basso
  • Colm O’Ciosoig: batteria