Rolling Stones: la fine di un mito?

di Redazione, pubblicato il 27 Settembre 2017

Nel nostro spazio dedicato alle riflessioni, abbiamo voluto pubblicare, con l’autorizzazione dell’autore,  un articolo del saggista Massimo Del Papa inerente il recente concerto dei Rolling Stones a Lucca facente parte del No filter tour. Un’analisi spietata e lucida sullo stato della band di Jagger e Richard che tanto amiamo, che merita un’ampia, attenta e soprattutto (per noi fans) disincantata riflessione sul senso che un tour del genere può avere dopo quasi cinquantacinque anni di carriera di quella che da tanti è considerata la migliore rock band di sempre.

Come potrete immaginare, le reazioni a questo lungo articolo sono state in gran parte dedicate alle ingiurie nei confronti dell’autore. Se qualcuno vuol dirci la sua (essendo in questo sito disabilitati i commenti per questioni di spam), lo faccia mandandoci una mail all’indirizzo redazione@metrodora.net

gli Stones a Lucca

gli Stones a Lucca

Rolling Stones a Lucca: il concerto indimenticabile di una band finita

di Massimo Del Papa

dal sito www.lettera43.it

articolo originale a questo link

La Toscana la conoscono come le tasche della loro vita. Meglio di tanti che ci sono nati, che ci muoiono, perché loro sono i pirati del mondo e sanno dove trovare il meglio (e il peggio) del mondo. Ci hanno fatto viaggi di nozze, feste pazze, affari colossali, e cose da non dire. Ci si fermeranno anche dopo il concerto, Mick visitando amici famosi e non, Charlie divagando per allevamenti di cavalli, Ronnie per mostre d’arte. E Keith? No, Keith ormai non esce quasi più dalla sua suite. Due alberghi diversi, in centro a Firenze, il cantante al Fuor Seasons, gli altri al St. Regis, almeno così erano registrati, tutti con relativo seguito, che non è né esiguo né di bocca buona per nessuno.

Sono atterrati a Pisa giovedì 21 settembre, con l’aereo privato con la linguaccia e la ditta, apodittica, ‘ROLLING STONES’, lungo la fiancata, si sono eclissati a bordo di blindati neri, minacciosi, ma i più fanatici sapevano già tutto e li hanno aspettati nei posti giusti, sperando invano di ritrovarseli sparpagliati per le vie di un centro storico fra i più belli del pianeta. È scontata e insieme non lo è, l’attrazione fatale che questi quattro vecchiacci continuano a suscitare anche in Italia. Dove non sono mai mancati, specialmente nel loro autunno: concerti nel 2003 e 2006 a San Siro, 2007 all’Olimpico di Roma, 2014 al Circo Massimo. Ogni volta un’ultima volta, ogni volta una volta ancora. Ogni volta più adorati di prima.

L’aereo con la lingua rossa si posa sulla pista ed è come se l’universo che li ospita subisse una scossa, tutto si rianima, si tinge di loro. I Rolling Stones da tempo non hanno più niente delle vibrazioni malfamate e scellerate che li hanno resi immortali, ma la loro reputazione li precede e le città si adeguano, si sintonizzano. Succedono cose italiane. Biglietti schizzati a 1.000, 2.000 euro, fogne di sottoscala fantozziane spacciate per camere rifilate allo stesso prezzo, tutto un fiorire di attività da suk, vetrine che si riempiono dei loro colori, menu intonati al gruppo, capi di vestiario con il logo della band a prezzi da rapina, 35 euro la magliettina del merchandising ufficiale. Eppure non c’è spazio per tutti, 55 mila biglietti fumati in un amen e ne vogliono ancora, e la piccola, incantata Lucca non ce la fa.

rolling stones' jet

rolling stones’ jet

E dappertutto, a raggiera, quelle vibrazioni si spandono, dalle radio rimbalzano le notizie come per un tam tam spiritato e a tratti demenziale, «Mick Jagger ha visitato privatamente il David alla Galleria dell’Accademia di Firenze come una persona normale»: e che doveva fare, mettersi a svolazzare? Ma anche questa è ordinaria follia, un concerto dei Rolling Stones (curiosamente quando a Firenze c’è un’altra inglese non qualunque, si chiama Theresa May, detta “zia May” dai fanatici dell’Uomo Ragno) diventa ancora evento nazionale, come 50 anni fa al Palalido di Milano, «quando a migliaia entrarono da bravi ragazzi e uscirono figli di puttana». Adesso non è più cosa, difficile che gli Stones possano ancora sterzare la vita a qualcuno, sfornare delinquenti di ritorno, ma un loro concerto rimane lo stesso circo straordinario, qualcosa che, specialmente chi non li aveva mai visti, ricorderà per sempre.

La cittadella del concerto, intanto, cresce come un alveare dalla pazzia meticolosa, ordinata. Perché la paura di attentati è un’isteria giustificata, perché la piccola città non è abituata a uno stress pazzesco come questo e molti bestemmiano in lucchese, perché ospitare, far suonare i Rolling Stones è un incubo molto simile a uno sbarco militare, già il campo delle antiche mura va trasformandosi in teatro, a opera chi dice di due, chi di 4 mila persone, dall’alto insetti implacabili a montare il palco da piazza d’armi, con una lingua che si protende nel ventre della folla, i quattro maxischermi verticali da 120 metri, dinosauri famelici che risputeranno le rughe, le pose, la gravità dei vetusti eroi e sono la autentica carta in più di questo show, i 15 skybox da 20 privilegiati ciascuno, con dotazioni lussuose, roba da grandi marchi, grandi pupazzi, grandi coglioni, e le migliaia di divise d’ogni colore, pompieri, protezioni, sicurezze varie, tutte con lo stesso compito e mansioni diverse. Un presepe mastodontico.

il pubblico degli Stones a Lucca

il pubblico degli Stones a Lucca

Né la faccenda finisce qui. I musicisti hanno i camerini nel Palazzo Ducale, separato dallo stage dal Cortile degli Svizzeri. C’è pure un superchef tutto per loro, pronto a soddisfare qualsiasi capriccio della raffinatezza più sfrenata: è partenopeo, si chiama Gennaro Esposito, «Come dire John Smith a New York», chioserebbe Piedone lo Sbirro. Solo il meglio per quei bravi ragazzi, e a volte non basta nemmeno. Una operazione dal costo stimato in 20 milioni, con 40 di ricavi, e pazienza se i lucchesi non stonesiani imprecano. Ad assistere, calamitati dalla Toscana settembrina e inondata di sole, ciò che agli Stones è parso molto bello – «Ah, averlo cominciato da qui, il tour» -, altri clienti di riguardo quali cantanti, sedicenti rockstar nostrane come Pelù, stilisti, vipparoli, c’è pure la sindacalista Camusso, non sul prato proletario del Campo Balilla ma in tribuna vip: rivendicazioni salariali, questa sera, non pervenute. Da sempre, i vecchiacci danno lustro a chi li guarda, sulla loro lingua non tramonta mai il sole.

Tutto per due ore di concerto. Già. Come hanno suonato i Rolling Stones a Lucca? Mah! Le prime date del ‘No Filter Tour’, quelle crucche, sono state sconcertanti, tanto da indurre in molti lo stesso pensiero: il guaio dei Rolling Stones è di aver voluto vivere. Avere resistito, sopravvivendo a sé stessi, fino a che non si è fatto troppo tardi. E adesso, lo slogan per il loro ultimo (ultimo?) tour europeo potrebbe essere: venite a vedere il nostro declino. Un declino che in realtà è un tracollo che non risparmia nessuno di loro. Non Charlie Watts, mummificato dietro le pelli dei tamburi, con nessuna espressione più in faccia, neppure quella della fatica. Non Ronnie Wood, le cui ossa sembrano bucare il volto bruciato, forse ancora sconvolto dal male appena estirpato. Non Mick Jagger, comunque il più vitale, quello che ce la mette ancora tutta, che aveva illuso il mondo di essere inattaccabile alle leggi dell’usura, l’unica eccezione a ciò ch’egli stesso cantava, «Il tempo non aspetta nessuno…».

Adesso Mick ha raggiunto la sua eternità, i suoi movimenti sono impercettibilmente più stanchi, più appannati, dimentica versi di brani, la voce non sempre gli regge. Chi la vecchiaia l’ha abbondantemente superata, è Keith Richards. L’uomo impossibile, il Superpirata, il Grinta, il motore anche troppo mobile degli Stones non è che sia grippato: semplicemente non esiste più. Keef è morto 10 anni fa, alle Isole Fiji, cascando da una palma. Da allora, da quella emorragia cerebrale diagnosticata in ritardo, ricomposta come Dio ha voluto, lui non è più stato non si dica lo stesso, ma neppure una pallida, spettrale controfigura. Le sette placche di metallo che gli tengono insieme il cervello lo lasciano vivere, ma non possono più consentirgli di suonare. Keith non può più suonare. Non lo sa più fare, e le dite rese dall’artrite come contorti rami d’ulivo completano lo sfacelo. Egli ride, ride sempre, in modo vacuo, come fanno i vecchi quando non stanno più bene e sono ostaggio di troppe medicine; se poi ci fosse un princìpio di chissà che altro, forse ce lo diranno solo a cose fatte, o forse non lo riveleranno mai.

gli Stones a Lucca

gli Stones a Lucca

Fa un dolore che non si può dire, scrivere queste cose. Ma le canzoni si succedono a velocità rallentata, perché nessuno dei quattro ce la fa. Sono tragiche. E tragico è vederli, pupazzi
condannati a contorcersi, a danzare ancora dopo morti. La legge della morte non ha risparmiato i Rolling Stones, che di rovina e distruzione hanno disseminato il loro cammino, tortuoso e inarrivabile, lasciando orge di cadaveri dietro di sé. Adesso tocca a loro, e l’agonia è ingrata. Sui forum si litiga, in quel modo straziante come sempre lo sono gli hardcore fans: «Ma non lo vedete che non stanno in piedi, non sentite che Keith non riesce neppure più a imbracciare la chitarra, e qualsiasi passaggio, anche il più elementare, lo sbaglia?». «Taci, infame, infedele, lui è immortale, lui suona così perché gli va così, perché sta sperimentando nuove soluzioni». A 74 anni.

I fans sono irragionevoli, zuppi di dissonanze cognitive, folle è il loro amore disperato che, per non vedere, s’acceca. Ma qualcuno ha il residuo coraggio della realtà, il pudore che si deve alla logica. Anche perché i biglietti per vedere (dai megaschermi) i quattro fantasmi rugosi, quelli sono cari tanto che neanche la moltiplicazione dei pani e dei pesci li giustificherebbe. E qui non si moltiplica niente, qui si discute un mito edificato su cattedrali di gloria maledetta. Blue And Lonesome, il disco di blues, degli standard “minori” di un anno fa, uscito quasi per caso, stampato in fretta e furia, aveva tramortito tutti: «Senti qua che roba», «ce l’hanno fatta un’altra volta». Oltre 2 milioni di copie vendute, in tempi di download feroce, critica unanimemente deliziata. Adesso suona come l’epifania della fine. Adesso si aspetta questo stentatissimo album di inediti che non vogliono uscire, sono secoli che se ne parla, dal 2005, quando arrivò A Bigger Bang, nel 2018 pioverà per forza, perché ci sono i contratti, le penali, la colossale macchina pubblicitaria dei Rolling Stones che va avanti col carburante del futuro, di ciò che non c’è ancora ed è solo promesso. Ma quel disco rischia di uscire postumo con gli artefici ancora in vita.

Sono in tanti, sempre di più, a chiedersi che senso abbia continuare a solcare i sette mari a suon di concerti, e Dio solo sa se non ci costa un sangue chiedercelo anche noi. Ma vederli dai filmati su Youtube, questi Rolling Stones la cui energia forsennata pareva farli schizzare fuori dalle fotografie, oggi crocifissi a loro stessi, queste pietre che non rotolano più, questi demoni alla moviola, è una sconcertante disperazione che mangia quel che resta delle nostre illusioni. Keith Richards parte con l’;assolo diSympathy For The Devil e resti sospeso nel respiro, pregando il dio degl’inferi che non glielo faccia sbagliare. E lui invece lo sbaglia, e tu resti ferito, come se, guardandoti nello specchio, avessi scoperto improvvisamente la tua fine, quell’irrilevanza che ti scorre addosso lenta, amara, inarginabile, con le tue lacrime.

Tutto questo ad Amburgo, a Monaco, in Austria, al Red Bull Ring di Spielberg («Strana sensazione, suonare allo Spielberg», non si è fatto almeno sfuggire l’occasione di ghignare Richards). Poi, in Svizzera, a Zurigo, qualche segnale di risveglio, sprazzi di bagliori dell’antica leggenda. E finalmente Lucca. Dove tutto comincia secondo scaletta consolidata, l’apertura tra le onde di fiamme di Sympathy, muri infuocati, danteschi entro le Mura Antiche. Keith deve fare il primo assolo. Naturalmente lo sfascia…. Diciamo questo, che i 56 mila (mille più della capienza: ma erano arrampicati dappertutto) sono usciti felici: basta non aspettarsi troppo, basta prendere il buono che c’è. Il buono sta nel megaspettacolo che comunque non manca. Sta nel Mick Jagger che indossa 20 anni di meno e impazza, da quella gran zoccola planetaria che è: «Are you feeling good? E che cazzo!». E motteggia toscano, «ganziiissimooo!», e racconta di aver «mangiato un ottimo gelato con Theresa May a Firenze», e «stasera mi sento romantico» (come no) e attacca Con le mie lacrime, la versione italiana di As tears go by, che pareva già preistoria nel 2006 a San Siro, figuriamoci a Lucca. Purtroppo la sviolinata deraglia, a dispetto della 12 corde acustica Keith. Già, proprio lui. «Un mezzo disastro», dirà poi più qualcuno.

Honky Tonk Woman, che è sua come di nessun altro, la deve riattaccare dopo una falsa partenza, perché si è messo a suonare prima del campanaccio da vacca di Chuck: ecco, questo è qualcosa che mai, mai, mai nessuno avrebbe considerato possibile fino a qualche stagione fa; adesso fa parte del gioco, non stupisce più nessuno, stupirebbe il contrario. Ce la fa, il vecchio Keef? Un poco più mobile nella seconda parte, chissà che gli hanno dato per svegliarlo, cocaina è escluso, da 10 anni, magari pasticche di caffeina. «Scusa… I’ve got a job to do», anche lui, memore delle lezioni che gli dava Anita Pallemberg, spreme qualche stilla di italiano, per non essere da meno di Mick.

rolling stones

rolling stones

Il buono sta nel suo reggere, sempre più a fatica, come una casa che va disfacendosi ma ancora non crolla; sta nel doppio lavoro di Wood, che un po’ tiene insieme il suono con Chuck Leavell, chiamato a spalmare di tastiere sopra i buchi lasciati da Richards, e un po’ si lancia in assoli più fantasiosi, più rischiosi che in passato; sta nel tanto blues sentito a Lucca, dagli standard tratti dall’ultimo disco, Just Your Fool e Ride ‘Em On Down, alla quasi jam session su Midnight Rambler, sempre ricamate dall’armonica fiammeggiante di Mick; sta nella resa di Let’s Spend The Night Together, che è stata «scelta dal pubblico» quanto Di Maio dai grillini, ma siccome Mick è paraculo e sa che agli italiani piace molto, eccotela qua; sta in certi attimi fuggenti che il grosso della massa non può cogliere, ma chi è stonesiano dentro non manca, come quando Keith attacca al ralenti Satisfaction e Charlie Watts, impassibile, battuta dopo battuta costringe tutto il baraccone al tempo giusto.

Ci si può contentare, via. Ciò che buono non è – il volume assurdo delle chitarre, specie quella di Keith, i vuoti di memoria, dei quali in parte abbiamo detto, aggiungiamoci ll’inopinata fine tronca su You Can’t Always Get What You Want, ma chi è che l’ha mollata lì? Mick o Keith, e ancora logistica per la quale almeno un terzo del pubblico il palco non poteva manco sospettarlo, e i disservizi inevitabili in una malabolgia così – tutto verrà perdonato e i Rolling Stones ripartiranno col loro aereo, destinazione, vedi un po’, Barcellona, chissà Mick che dirà delle fregole autonomiste, gli Stones seguono e precedono sempre i casini del mondo, li attraversano e volano via. Sì, la linguaccia rossa si alzerà a sbeffeggiare le nuvole e la piccola, sonnacchiosa Lucca si ricomporrà come dopo un incubo da favola da ricordare per sempre. Qui, a Lucca, magari i Rolling Stones non hanno fatto la storia, ma la Storia sono loro. Ed è sempre l’ultima volta, fino alla prossima.