Nocturnal Rain Forest: Eraldo Bernocchi/Igor Cavalera/Merzbow – 02/09/25, Botanique, Bruxelles – recensione

di Redazione, pubblicato il 18 Settembre 2025

Recensione di Edo GenovaNoiseGang

Nella pioggia fitta e sottile di una Bruxelles autunnale ci troviamo a fumare una sigaretta all’ingresso di un giardino botanico che, al suo interno, come un cuore pulsante contiene il Botanique: una sala concerti che stasera ospita uno degli eventi più esclusivi di questo settembre europeo per quanto riguarda il noise, la Power Electronics e la scena d’avanguardia. Un trio d’eccezione si muove sotto il moniker di NOCTURNAL RAIN FOREST, e i nomi all’anagrafe risuonano come macigni per chi sa di cosa stiamo parlando: Eraldo Bernocchi (Sigillum S), Igor Cavalera (batterista nei Sepultura, Cavalera Conspiracy e fratello di Max Cavalera, voce e mente dei Soulfly) e Masami Akita, noto alle cronache con l’imponente nome di Merzbow.
 
Raggiungiamo la sala già gremita e ci troviamo ad assistere al set di apertura a cura di Microcorps (all’anagrafe Alexander Tucker, noto per aver aperto ad artisti della tiratura di Cabaret Voltaire e Lasse Marhaug) che con un cappuccio bianco e due luminarie a delineare un viso futuristico – che ai cultori ricorda un po’ i Jawas di Star Wars – apre le danze con un set particolare, interessante e intelligente. Il live è ritmico, ipnotico, ti fa capire che si fa sul serio fin da subito: spazi corti tra una battuta in levare di kick e l’altra, bassi in low-cut che rimbalzano sulle meningi, un viaggio atavico tra storture e asincronie ritmiche che, centrifugate, mantengono una coerenza. Anche attraverso le visual cyber-botaniche (estetica che si ripropone come costante dalla venue fino a tutte le proiezioni dei set) veniamo condotti in un atterraggio di fortuna su un paesaggio alieno. Abbiamo toccato terra, guardiamo le piante pulsare e ci rendiamo conto dell’ostilità del nuovo mondo, ma ne rimaniamo attratti e ipnotizzati.
 
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Il set si chiude e cala il silenzio… un silenzio che dura poco, giusto il tempo di una bevuta veloce che ci permette di scorgere tutta la scena europea underground presente in sala: dai cultori della vecchia scuola post-industriale alle nuove leve e musicisti vari, giunti da Germania, Italia e Nord Europa. In mezzo qualche metallaro, attratto dal nome Cavalera, e alcuni curiosi richiamati dall’unicità dell’evento.
 
In effetti l’evento è unico: un trio d’eccezione per sole tre date in Europa – Berlino, Bruxelles e Breslavia – Germania, Belgio e Polonia, tappe di una combo che unisce impronte e sonorità noise e sperimentali globali. USA, Asia ed Europa si intrecciano.
 
Ritorna il buio, e nel frattempo la sala si è nuovamente gremita. Stavolta l’aria è carica di un’attesa soffocante che rende la platea irrespirabile… nel buio si accende il proiettore: una foresta pluviale, un primo piano in esplorazione… regna ancora il silenzio. Ci aggiriamo tra le foglie e attendiamo impazienti.
 
Il primo a salire sul palco è Cavalera, che lancia delicatamente dei campioni ambientali legati alle visual. Ora siamo davvero nella foresta, con gli occhi e con le orecchie. Nonostante l’odore di birra e sudore che ci circonda, siamo lì, e stiamo aspettando qualcosa… o qualcuno. I campioni si fanno confusi con delay ed echo indotti dalle mani di Igor, e inizia il vero viaggio.
 
Il secondo a salire sul palco è Bernocchi, che con decisione si mette ai synth e ai modulari, lanciando droni accennati che diventano via via più pieni e rotondi. Il cammino nella foresta si fa fisico, vibrante, oscuro, criptico. I droni salgono e ci fanno vibrare, mentre dal retro del palco entra anche l’ultimo gigante atteso in sala: Merzbow. Si posiziona a lato con la compostezza che lo contraddistingue e capiamo tutti che la sonorità di questo viaggio è giunta a un punto di non ritorno.
 
Le incursioni rumoristiche di Akita iniziano a farsi percepire in sottofondo, sempre più invadenti, come se volessero sgomitare tra i synth rotondi di Bernocchi e le percussioni suonate con il pad da Cavalera, abilmente inserite senza che ce ne accorgessimo. Il suono ha una coerenza spaventosa: i tre ci conducono lungo un’esplorazione sensoriale creata ad hoc. Ci perdiamo in uno spazio liminale tra Apocalypto e Predator, con un pizzico di Cannibal Holocaust. Le percussioni sintetiche di Cavalera ci preannunciano l’arrivo del predatore, i synth di Bernocchi ci disegnano piramidi e sacrifici rituali, le distorsioni di Akita ci mostrano brutalità primitive e disturbanti.
 
Senza nemmeno rendercene conto, Cavalera lascia il tavolo condiviso con Bernocchi e si avvicina alla batteria collocata al centro del palco. Seduto, inizia ad accennare colpi di pedale sulla grancassa e rimbalzi sui tom. La tensione cresce, si fa palpabile, ritmica, cardiaca, incalzante. Il tutto evolve sinergicamente in colpi sempre più forti, coordinati e cadenzati che portano a un quasi insostenibile blastbeat che cerca spazio tra le due sonorità che lo incorniciano. Nulla sovrasta nulla, nessuno è in primo piano. Il set arriva come uno schiaffo in pieno volto e ci lascia lì, travolti da una tachicardica cavalcata che cresce a dismisura e decresce impercettibilmente, riabbassando il battito.
 
Il flusso in salita e discesa della batteria si fa sempre più riconoscibile e cadenzato. Ci aspettiamo qualcosa a ogni decrescita, e puntuale come un pugno allo stomaco arriva una ripartenza tecnicamente immacolata che ci riporta a BPM più alti. Appena ci abituiamo a questo flusso e iniziamo a riconoscerne schema e matematica, arriva un colpo. Il colpo che dietro di sé porta il silenzio, e poi il vuoto, da cui riaffiorano, sotto un tappeto di rumore, fischi e colpi primitivi, i suoni della foresta.
 
In questo silenzio che sa di fine ci rendiamo conto di non essere mai partiti davvero per quel viaggio tra rampicanti e fogliame selvaggio del Sudamerica visto nelle visual: eravamo qui. L’allucinazione collettiva era tanto aliena quanto introspettiva. L’alluvione di suoni ci ha semplicemente accompagnato in un viaggio dentro le nostre menti.
 
Il palco è di nuovo vuoto, e realizziamo tutti di aver assistito a uno show più unico che raro. Non solo per la capacità di saper gestire i tempi (50 minuti totali), non solo per la natura esperienziale del set, ma per un’unione che già sulla carta prometteva e che sul palco ha regalato qualcosa di unico, diverso, memorabile.
 
Usciamo dal Botanique e ci guardiamo attorno. Le piante del vero giardino botanico ci accolgono, ci hanno guidato nel viaggio e ci salutano all’uscita, mentre torniamo nelle strade bagnate e crude di una Bruxelles sotto la pioggia, tra ristoranti libanesi, puzza di hashish e lampioni bassi. Siamo ancora frastornati, e ci chiediamo se la realtà sia questa – fatta di fari d’auto e palazzi di cemento – o se sia proprio questa l’allucinazione collettiva, e noi ne siamo prigionieri dentro.
 
Per tirare le somme, questo set a sei mani è risultato altamente esperienziale, sicuramente diverso da ciò che tutti ci aspettavamo. Alla luce di ciò, qualcuno dirà che sarebbero stati meglio tre set diversi e singoli, ma io invece mi porto a casa l’esperienza. E dopotutto, questo genere non è forse proprio quello che vuole lasciarti addosso? Un’esperienza.
 
Se restiamo ancorati a questa idea, non si può negare che l’obiettivo sia stato centrato – e alla grande. Non resta che dirsi grazie per esserci stati e portarsi a casa un pezzo di foresta pluviale regalatoci da tre dei migliori artisti d’avanguardia contemporanei, che nella cornice di un giardino botanico ci hanno accompagnato nei meandri della loro ricerca artistica.
 
Bravissimi!
 
 
 
Sintesi:
Immersivi, tecnicamente ineccepibili. L’esperienza conta eccome, e in loro tre pesa doppio. Hanno proposto qualcosa di diverso e unico che ha reso memorabile il set: eccellenti, visionari, armonici e rotondi.
 
Valutazioni finali:
 
Per un pubblico entry-level – 7,5/8: sicuramente più apprezzabili di altri, hanno creato con teatralità sonora un concept fruibile anche a chi non mastica il genere.
 
Per i cultori – 8,5/9 : unici. Avrei dato questo voto anche solo guardando la locandina, perché meritano già sulla carta. Dal vivo non deludono: anzi, aprono una finestra su qualcosa di diverso, con sapiente esperienza, capacità di andare oltre i dogmi del genere e una visione avanguardistica che consolida la loro posizione di mostri sacri.
 
 
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