Alessandro Corvaglia – Out of the gate – recensione

di Riccardo Storti, pubblicato il 26 Settembre 2021

Conosco Alessandro Corvaglia da almeno 20 anni. Figuratevi che per me era, prima di tutto, il cantante di The Real Dream (cover band dei Genesis) e poi quello della Maschera di Cera. Un imprinting – spesso limitante – che mi ha sempre portato, un po’ pregiudizialmente, ad identificare il Corvaglia on stage con una sorta di imprescindibile e indissolubile radice genesisiana.

Sì, perché Corvaglia va oltre, per formazione e, diciamolo, anche per carattere. Sapevo da anni che v’erano un bel po’ di composizioni nel cassetto, pertanto Out of the Gate era un lavoro atteso e che, comunque, necessitava, da parte del suo autore, il giusto tempo per un’adeguata calibratura. Tenendo conto delle mille esperienze maturate nei lustri e alcune ancore attive (penso alla sua attuale militanza nei Delirium), Out of the Gate si presenta come un distillato stagionato artigianalmente, grazie anche a collaborazioni musicali in sala di tutto rispetto: mi cade l’occhio su un paio di chitarristi “da paura” come Cesareo degli Elii e il britannico Gordon Giltrap (uno che dal folk ha virato sovente nei territori prog). Inoltre ci sono le tastiere di Mauro Sabbione (ex Matia Bazar e Liftiba), il sax di Martin Grice (Delirium), il flauto di Raffaella Izzo, la chitarra classica di Matteo Nahum e quella elettrica di Marcella Arganese, la batteria di Andrea Orlando e il basso fretless di Andrea Sollo. Last but not least l’appoggio della band Il Giardino Onirico.

Certo, se ci fermiamo al timbro vocale, viene facile puntare a similitudini con brani dei Genesis e dei Marillion, ma occhio a non fermarsi alle apparenze, perché sulla strutturazione e sui colori, il tentativo da parte di Corvaglia di consegnare un lavoro personale (o, se non altro, autentico) c’è.

Qualche esempio veloce. Specchietto Marillion Side: l’opener Promised Land ha un cuore strumentale – in cui si dipana il sax di Grice – e alcuni elementi ritmici che si allontanano dall’eventuale “ricordo”, per non parlare dell’orecchiabile frase di Moog tra Orme, PFM e El & P.

Specchietto Genesis Side: Preaching on Line ha rifinite smussature che spaziano da una certa allure sinfonico-pop alla Alan Parsons a bicordi distorti alla Asia, benché qua e là si sta come le foglie tra The Lamb e Duke. Sono specchietti, ma quanto si riflette va ben oltre.

alessandro corvaglia

alessandro corvaglia

 

Il palleggio capita anche con altri brani (White Ghosts e la conclusiva title track) e, tuttavia, l’itinerario è sostanzialmente rassicurante, ma non per questo così prevedibile. Bisogna avere la pazienza di scendere nei dettagli, riscoltare più volte il disco e lasciarsi stupire. Prendiamo Vision, da Fool’s Mate di Peter Hammill: non solo Corvaglia si cala nella parte, ma lo fa senza indulgere in qualsiasi tentazione imitativa. Quella che ascoltiamo è la sua Vision, una lettura autonoma, così come autonomo è l’arrangiamento (bella la cadenza pianistica di Mauro Sabbione). Sulla title track, data la struttura monumentale, Corvaglia ha dosato l’espressività del pezzo su un blocco marmoreo costruito su atmosfere sospese e frasi melodiche ripetitive, quasi coniugando i Pink Floyd con gli Yes, l’orizzonte con il vertice (ah… godetevi i super-assoli di Ceasareo).

Nelle ballad si percepisce meglio il lavoro di scavo: Where have I been? gioca sull’alternanza di un ritmo ternario zoppiccante (da strofa a ritornello) con un breve interludio di flauto e basso ricollegabile tanto a certo prog acustico italiano (toh, i Delirium), quanto a passaggi dei King Crimson di Islands o dei Camel. A tal proposito, anche lo strumentale … and the Lady Came in non si distoglie dalla falsariga (anzi, in più non sfigurerebbe un affiancamento alla nostra Reale Accademia di Musica o all’Anthony Phillips prima maniera).

Gordon Giltrap dà il suo contributo in risposta a A Deed within a Dream (scritto da Corvaglia nel 2006 come tributo personale al musicista inglese, uno strumentale arioso e leggero) con 12 Tower, gradevole idillio acustico classicheggiante tra ambient, impressionismo e colonna sonora. Non dimentichiamo, inoltre, che questo è anche un album di canzoni, quindi di testi in cui Corvaglia racconta se stesso (Where have I been?, …and the Lady Came in, Out of the Gate), si lascia andare in visioni fantasiose (The Night of the Eyes), ma non perde il contatto con la realtà quotidiana (i migranti di Promised Land, le guerre di White Ghosts e i barbari da tastiera di Preaching On Line).

Riccardo Storti (articolo originale sul blog Asterischi di Musiche)